Il cibo è l’unica cosa che accomuna tutti gli esseri umani. E da ciò risulta evidente l’importanza della relazione che ciascuno di noi instaura con il cibo, a livello personale e di comunità. Il cibo è qualcosa di profondamente diverso e immensamente più complesso rispetto a un semplice carburante per muovere i nostri muscoli: è cultura, identità, spiritualità, socialità.
Carlo Petrini, prefazione di Dimmi come mangi (Terre di mezzo Editore, 2015)
Il 3 marzo, l’autore e giornalista Michele Serra ha dato inizio al nostro romanzo-evento online Il Grande Trasloco. In questa intervista, tratta da Dimmi come mangi. 14 interviste imprevedibili (Terre di mezzo Editore, 2015), racconta il suo rapporto con il cibo e cosa ha imparato da Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, che incontreremo nell’appuntamento “Il cibo come progetto politico” di mercoledì 10 marzo, ore 18.
Come definiresti il tuo rapporto con il cibo? Piacevole, occasionale, fastidioso…
Piacevole, sicuramente. E tutt’altro che occasionale, come dimostra il mio girovita non impeccabile. Diciamo che è un rapporto da italiano cosciente – con il tempo – di vivere in un luogo di eccellenza gastronomica. Di fastidioso ci sono i chili di troppo, la difficoltà di fare un po’ di dieta. Ma ho smesso di fumare, non posso smettere anche di mangiare e bere. Amo la salute, ma odio il salutismo. Nel salutismo c’è un eccesso di cura di sé decisamente narcisista. Chi è devoto a Dioniso non può essere Narciso.
Esiste un tuo piatto preferito?
A dire il vero non ho un piatto preferito. Sono un onnivoro curioso di ogni genere di dieta. Ho il terrore di scoprire che anche io, come tutti pare stiano scoprendo, possiedo una intolleranza alimentare… Non lo voglio sapere, voglio assaggiare di tutto. Ma se dovessi proprio estorcere a me stesso una delizia imperdibile direi gli asparagi con uova e parmigiano. Al secondo posto gli spaghetti con la bottarga di muggine. Al terzo, per completare il podio, un panino con la coppa piacentina, posto che il pane sia buono e la coppa appena tagliata.
Viste le premesse, già ci immaginiamo un Michele Serra mago dei fornelli…
Non esageriamo, però me la cavo discretamente. Niente di notevole, ma sono in grado di mettere a tavola un po’ di gente senza fare figuracce. Ho vissuto per parecchi anni da solo e sono un cuoco “di tutti i giorni”, senza nessuna ambizione da chef ma con una discreta pratica. Ora cucino di meno, ma, quando lo facevo spesso, il piatto che mi riusciva meglio era il risotto. Con i funghi o con gli asparagi. O salsiccia e barolo: non leggerissimo…
Hai accennato alle mangiate insieme agli amici. In effetti per molti, cibo è sinonimo di socialità. Scommetto che è così anche per te.
Certo! Da Carlo Petrini, che per mia grande fortuna è amico vero da moltissimi anni, ho imparato che non esiste piacere del cibo senza piacere della socialità. Il convivio è una delle forme più alte della civilizzazione: mettere le gambe sotto lo stesso tavolo, dividere il cibo, offrire fratellanza. Una vera comunione.
C’è una epistola di Orazio, al tempo stesso divertente e commovente, nella quale invita un amico a lasciar perdere, finalmente, la vita snervante di Roma (oggi si direbbe: lo stress) e raggiungerlo subito in campagna, dove si può oziare, chiacchierare, mangiare e bere in compagnia. Non saprei indicare niente di più consolante e di piacevole, nella vita, che una tavola con del buon cibo, del buon vino, dei buoni amici. È un presidio formidabile contro la solitudine e la paura della morte.
Il cibo è piacere collettivo ma a volte riesce a essere anche memoria molto intima e personale. C’è qualche ricetta, profumo, ingrediente capace di evocare in te ricordi particolari?
Assolutamente sì. Il profumo dei lamponi, quello che lasciano sulle mani appena raccolti in montagna, e anche quando escono dal forno sotto forma di crostata ai lamponi. I lamponi mi ricordano la più felice delle infanzie, le estati in montagna, in Francia, con i cugini e le zie, in una casa piena di gente, di confusione, di rumori, di vita. E mi vengono le lacrime agli occhi per lo struggimento. Si usava il forno a legna, il burro dei pastori, i lamponi erano quelli che si raccoglievano in passeggiata. Un profumo strabiliante, che riconoscerei tra milioni di altri. Le voci delle donne che chiacchieravano e ridevano in cucina mi facevano sentire protetto e felice… Poi amo l’odore che esala dai mercati del pesce, quell’odore che esita tra il profumo e la puzza, acre, salmastro. È uguale in tutto il Mediterraneo, è l’odore del mare nella sua forma viva. È quando il mare smette di essere minerale e diventa animale. Nessun odore al mondo può mettermi più appetito dell’odore di un mercato del pesce. Una bottiglia di bianco secco in frigo è l’ultima cosa della quale mi priverei, il giorno che dovessi cadere in disgrazia…
Pur con tutte le eccezioni del caso (forse tu sei una di queste), cucinare resta – nella ripartizione dei ruoli nella coppia – un’attività prevalentemente femminile. Perché allora, secondo te, gli chef più famosi sono perlopiù maschi?
Facile. Perché i maschi sono più esibizionisti e vanitosi. Per loro la cucina è un palcoscenico, il luogo nel quale fare sfoggio del proprio talento. Per le donne la cucina è lavoro, resistenza, sopravvivenza, umile ingegno quotidiano. Ma le più grandi sapienze gastronomiche da lì provengono, dalla fatica secolare delle donne per mettere a tavola molte bocche con ben poca materia prima.
Lungi da noi volerla mettere in politica, però il cibo è un elemento forte – secondo molti – dell’identità di un popolo. Nel caso specifico dell’Italia, cosa vedi di genuino e cosa di localistico nelle tante “cucine regionali”?
Il cibo, nell’identità di un popolo, conta enormemente; mi viene da dire che conta perfino troppo pensando agli eccessi di provincialismo di molte parti d’Italia, nelle quali il cibo è tanto locale da produrre chiusura, abitudine, diffidenza per tutto ciò che è diverso. Nel Piacentino, dove vivo felicemente la gran parte del mio tempo, al di fuori dei tre o quattro piatti della tradizione, sempre i soliti, è quasi impossibile trovare altro. Bisognerebbe riuscire a tenere insieme tradizione e innovazione, le certezze e le curiosità. Se no non si cresce.
Slow food, cucina bio, turismo enogastronomico, vie del gusto… Intuizioni geniali ma forse anche mode che rischiano di perdere il legame con la freschezza delle origini. Vedi il rischio che si diffonda una sorta di “ideologia del cibo”?
È un rischio, sì. Ma più del rischio valgono le grandi possibilità culturali ed economiche che una “ideologia del cibo” potrebbe diffondere. La verità è che prevale l’ignoranza del cibo, un approccio istintivo, distratto, tra l’altro dannoso per la salute. L’esempio classico è la persona con poco potere d’acquisto che non rinuncia al nuovo smartphone, ma compra cibo di serie C nei discount, risparmiando pochi euro. Molti meno euro di quanti ne risparmierebbe tenendosi il suo vecchio smartphone. Sarebbe bellissimo che cambiasse il paradigma culturale: priorità per la qualità del cibo, che è un bisogno primario: sei quello che mangi. Il resto segue.
Un’ultima domanda, che non possiamo non fare a chi, come te, invita spesso nei suoi articoli ad alzare lo sguardo dal nostro ombelico. Nel terzo millennio la fame è un problema tutt’altro che risolto: è un destino inevitabile o il frutto di precise scelte politiche ed economiche? E quali sono le responsabilità di noi consumatori?
Discorso molto complicato. Ma se è vero quello che dice la Fao, non è il cibo che manca, sono i soldi per comprarlo. Si muore di fame per povertà, non perché Madre terra non produce abbastanza nutrimento. Questo non è abbastanza detto e non è abbastanza noto. E cambia radicalmente l’approccio al problema. E rende molto più sospettabili, molto meno difendibili, le monocolture intensive, quelle che per migliaia di ettari cancellano ogni biodiversità con il pretesto di adeguare la quantità di cibo alla quantità degli esseri umani. Si produce già cibo bastante per dieci miliardi di persone. E se ne butta via una quantità spaventosa.
Intervista tratta da Dimmi come mangi. 14 interviste imprevedibili sul cibo (Terre di mezzo Editore, 2015) di Paolo Corvo e Stefano Femminis, con prefazione di Carlo Petrini.
Rivedi l’incontro con Michele Serra, “Prologo: il potere delle parole” al Grande Trasloco.