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La filiera del pesce e i nostri acquisti (in)sostenibili

La filiera del pesce e i nostri acquisti (in)sostenibili

Non è vero che i pesci sono muti. Neanche quelli che troviamo in pescheria. Se stiamo un po’ attenti ci raccontano dove sono cresciuti, come era l’acqua, come sono stati pescati, cosa hanno mangiato, quanti chilometri hanno fatto per arrivare nella nostra padella… C’è poi la storia di chi li ha pescati. E non è un dettaglio: dietro a un pesce ci può essere lo sfruttamento del patrimonio ittico oppure un rapporto di profondo rispetto dell’uomo verso il mare.

A Favaro Veneto, sulla terra ferma di Venezia, i gestori della pescheria Itticosostenibile si sono inventati il “semaforo della sostenibilità”. Un semaforo a quattro colori, in cui al top c’è il blu (miglior sostenibilità) e poi si scende al verde, al giallo e al rosso. Sui cartellini del prezzo c’è quindi anche il colore assegnato, così il cliente sa quanto impatto ha sul mare il suo acquisto.

Sono tre i principali criteri con cui definiamo la sostenibilità di un prodotto. Il metodo di pesca, la provenienza del prodotto e l’incidenza sulle specie più sfruttate.

Federico Riccato, uno dei soci, laureato in Scienze ambientali ed esperto di monitoraggio ambientale ed ecologo della pesca

Sul bancone di Itticosostenibile i cartellini rossi in pratica non ci sono mai. “Preferiamo il pescato e l’allevato locale con una particolare attenzione per le specie ittiche definite povere o di scarso valore commerciale -aggiunge-. Certo a volte il nostro bancone risulta un po’ monotono, ma non ha senso avere pesci che arrivano da tutto il mondo, senza chiedersi quali sono le conseguenze”.

Oltre alla clientela locale, Itticosostenibile serve Gruppi di acquisto solidale (Gas) nel nord Italia. Non vende pesci provenienti da lontano, per esempio dall’Atlantico, né il salmone.

Dobbiamo imparare a non pretendere che ci sia sempre lo stesso pesce tutto l’anno.

Già, perché anche il pesce è stagionale. In questo periodo il bancone di Itticosostenibile offre soprattutto orate, branzini, cefali, anguille e latterini, pescati o allevati nell’Adriatico.

Non abbiamo le cozze, perché finché non fa caldo non crescono. Per avere un buon prodotto e un basso impatto sull’ambiente, bisogna rispettare la stagionalità dei pesci, i loro tempi di riproduzione e l’habitat in cui vivono.

Basta leggere l’ultimo rapporto della Fao, “Stato della Pesca e dell’Acquacoltura Mondiale 2020”, per rendersi conto che è sempre più urgente porsi qualche domanda quando si va in pescheria, chiedendo al negoziante ogni dettaglio o leggendo le etichette sulle confezioni. Nel 2018 (ultimo dato disponibile) sono state consumate nel mondo 179 milioni di tonnellate di pesce, di cui 82 milioni provenienti da allevamenti. Una cifra record, secondo la Fao, che conferma una crescita quasi costante da oltre un decennio. Nel 2005, per esempio, il consumo di pesce era di 125 milioni di tonnellate. Ma il problema è che oltre un terzo del pescato nel 2018 appartiene a specie ittiche sovrasfruttate. Quindi ne stiamo mangiando più di quanto mari, laghi e fiumi possano offrirne. Non solo. Il business del pesce è ormai globale, visto che il 38% del pesce consumato è stato oggetto di compravendita internazionale.

La stessa Fao sottolinea che solo puntando sugli allevamenti si potrà evitare che i mari si svuotino di pesci. Ma anche l’acquacoltura può avere impatti pesanti sull’ambiente. L’eccessiva concentrazione di pesce nelle vasche o nelle reti incide sulla qualità della carne, favorisce la proliferazione di malattie portando ad un abuso di antibiotici da parte degli allevatori e l’utilizzo di mangimi non naturali inquina le acque e i fondali. Per citare solo i principali effetti negativi degli allevamenti. L’Unione Europea ha stanziato oltre 1,5 miliardi di euro dal 2014 al 2018 per favorire l’acquacoltura.

“La sfida però è la creazione di impianti di allevamento off shore”, sottolinea Andrea Garibotto, della società Aqua Lavagna, che nel golfo del Tigullio, tra Sestri Levante e Portofino, ha realizzato un impianto di allevamento in mare aperto, con 16 grandi reti a circa due chilometri dalla costa. Di solito gli allevamenti vengono realizzati molto più vicino al litorale e al riparo dalle correnti.

Un impianto di questo genere permette ai pesci di crescere in un ambiente quasi naturale. E rispetta l’ambiente, come dimostrano le analisi che da vent’anni l’Università di Genova effettua analisi sia sull’acqua che sui fondali. Le spiagge del Tigullio hanno sempre il bollino blu.

Andrea Garibotto

Le reti in mare aperto comportano uno sforzo tecnologico e organizzativo particolare. E sono per esempio autoaffondanti: quando ci sono mareggiate molto forti i galleggianti vengono sgonfiati e le reti scendono a dieci metri di profondità, così da non essere danneggiate dalle onde. “A causa del maltempo non sempre possiamo arrivare a nutrire i pesci,- aggiunge-. In media perdiamo circa 100 giorni di nutrizione. Questo vuol dire che i pesci crescono più lentamente. Non solo. In inverno mangiano di meno perché fa più freddo e quindi per arrivare alla giusta pezzatura ci impiegano circa due anni. In altri allevamenti sotto costa o in vasche a terra i tempi di crescita sono molto più brevi”. Anche Aqua Lavagna fornisce Gruppi di acquisto solidali. “Sono circa un centinaio e si tratta di consumatori molto attenti, vogliono sapere cosa diamo da mangiare ai pesci, ossia mangimi composti solo da olio e farine di pesce e vegetali. Nell’ultimo anno non è stato possibile, ma la nostra azienda e l’impianto sono sempre visitabili e abbiamo intenzione, finita la pandemia, di organizzare visite guidate”.

Quando si tratta di pesce, la trasparenza dell’acqua ha la sua importanza, ma anche quella di chi pesca o alleva.

Di filiere abbiamo parlato nell’incontro con il panificatore Davide Longoni, guarda qui il video.


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